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Tornare a investire come “pratica professionale”

Le industrie mature per definizione non offrono le migliori opportunità di crescita: è certamente il caso anche di quella dell’asset management, e da investitori professionali, abituati ad analizzare le prospettive di diversi settori, dovremmo saperlo bene. E’ un’industria caratterizzata da sovraffollamento e pressioni sui margini. Il che fa sorgere spontanea una domanda… perché abbiamo deciso di fondare una nuova boutique d’investimento?

 

La nostra motivazione è sia personale che professionale. Dopo oltre 30 anni trascorsi in questo settore, investire rimane per noi una sfida appassionante, sia sul piano intellettuale che su quello pratico. E’ quello che ci piace veramente fare. D’altra parte, abbiamo sviluppato negli anni una profonda insoddisfazione per la piega che l’industria, o almeno una parte di essa, ha finito per prendere. Pensiamo che ci sia bisogno di un cambiamento profondo.

 

Tornare a investire come “pratica professionale”

 

Lo scrittore e analista Charles Ellis in un articolo di diversi anni fa proponeva la distinzione tra investire come “business” e investire come “pratica”₁ (professionale). La maggior parte di ciò che avviene nella gestione del risparmio in termini di attività, cultura e comportamenti è dettato soprattutto dalle esigenze industriali del “business”, con un’attenzione minore alla “pratica” dell’investire, che è invece all’origine della professione. Ne vediamo prova non solo nei comportamenti dei giganti del settore, ma anche in quelli dei gestori di dimensione minore. E’ raro che le imprese dominanti di qualsiasi settore vogliano rivoluzionare radicalmente (“disrupt”) i propri modelli di business. I vincoli derivanti dalle dimensioni, dalla complessità organizzativa e dalla necessità di continuare a crescere limitano la capacità dei player del settore di cambiare rotta e innovare. Si assiste così a una sorta di inerzia nelle modalità di competere, che in larga parte si riducono ad offrire prodotti molto simili a quelli dei concorrenti e ad operare sulle leve dell’efficientamento e dei costi.

 

Dati i 30 anni di cui si diceva prima, non pretendiamo di essere completamente esenti dai difetti di chi appartiene a questo mondo. D’altro canto, il tempo ha rafforzato in noi il desiderio di una maggiore attenzione alla “pratica” di investire, con l’obiettivo puntato a generare i ritorni migliori possibili per gli investitori, prima di ogni altra cosa. Vediamo perché.

 

“Benchmark-isation” della gestione degli investimenti

 

La cosa più importante accaduta nel settore negli ultimi 30 anni è quella che defineremmo “benchmark-izzazione” della gestione. Dettata in primis, ma non solo, dalla rotazione delle masse su prodotti passivi o semi-passivi. Questa ha generato un dibattito incentrato su livelli commissionali, grado di “efficienza del mercato”, misurazioni relative alla capacità dei money manager di battere gli indici e così via. Tutte cose molto giuste, che però omettono di toccare un punto fondamentale.

 

Il punto essendo che la gestione passiva non può essere una panacea. Quando tutte le classi di attivo si comportano come da manuale, ossia le azioni forniscono ai portafogli la componente di crescita, le obbligazioni forniscono reddito e “sicurezza” e quando la correlazione tra le due funziona bene, cioè è bassa o negativa, allora tutto va splendidamente. Infatti, l’asset allocation funziona, e non c’è bisogno di molto altro perché la gestione passiva all’interno delle singole classi di attivo può benissimo essere la ‘scelta di default’.

 

I problemi iniziano quando la diversificazione tradizionale tra classi di attivi tende a non funzionare più, allora la gestione passiva non offre soluzioni. Lo scenario che abbiamo davanti a noi è esattamente questo, per due motivi. Il primo: ad un livello di tassi di interesse prossimo allo zero e in molti casi ampiamente sotto, il reddito fisso cessa di svolgere la sua funzione di stabilizzatore di portafoglio e di generatore di reddito. Il secondo: nelle fasi di volatilità, ormai sempre più frequenti, la correlazione di tutte le asset class tra di loro tende a salire. In questi casi, c’è bisogno di scelte veramente “attive”. Qualcosa di completamente diverso dalle semplici regole di asset allocation come “60/40” o anche dalle soluzioni un po’ più complesse come la “risk parity”, che comporta un ampio uso della leva finanziaria.

 

La gestione attiva tradizionale non è necessariamente la soluzione

 

Se il passivo non è la soluzione, anche la gestione attiva, nel senso di una gestione tradizionale finalizzata a “battere il benchmark”, non riesce a dare le risposte di cui c’è più bisogno. Infatti, con la scusa di evitare la ‘deriva di stile’, i gestori attivi hanno deciso di giocare su un campo da gioco “ristretto”. Rimanendo ciascuno all’interno dei recinti specializzati e dei sotto-settori in cui l’universo investibile è stato segmentato. Il risultato? Che è difficile distinguere tra fondi passivi e fondi attivi che in realtà “abbracciano il benchmark” (ossia se ne discostano molto poco). Ancora una volta, il problema dell’asset allocation viene del tutto eluso.

In sintesi, i benchmark sono stati costruiti dall’industria della gestione in un’altra fase della sua storia, e hanno contribuito a mettere ordine e dare trasparenza all’offerta di prodotti. Ora però di prodotti in circolazione ce ne sono fin troppi e il benchmark ha perso la sua funzione di orientamento delle scelte. Pensiamo sia giunta l’ora per una proposta radicalmente diversa, e che ci sia bisogno di una gestione “nuovamente” attiva…

 

Una nuova definizione di successo

 

Partendo da dove? Dagli obiettivi che la gestione di portafoglio si pone, o almeno dovrebbe porsi.

 

La mira dichiarata di molti gestori attivi è quella di produrre una “performance superiore, aggiustata per il grado di rischio”. Ma cosa significa veramente? Classificarsi nella parte alta della propria categoria di fondi su un orizzonte temporale di 3 anni è il prerequisito per la raccolta di nuove masse. Eppure sta diventando un traguardo sempre più sfuggente, in un mondo con migliaia di fondi che inseguono le stesse opportunità di investimento.

 

Ma “battere il benchmark” è davvero l’obiettivo giusto? La “performance superiore corretta per il rischio”, anche se raggiunta, è ciò che interessa davvero ai clienti e risponde alle loro esigenze? L’industria è diventata così miope e concentrata sull’inseguire opportunità di sovra-performance sempre più ridotte, da non accorgersi del proprio crescente disallineamento rispetto agli obiettivi finanziari concreti dei risparmiatori e degli “asset owner”.

 

Ogni investitore, individuo o istituzione, ha obiettivi concreti e distinti. Per quanto ci riguarda, non abbiamo alcuna pretesa di conoscerli meglio dei clienti stessi o dei loro consulenti finanziari. Quello che sappiamo è che c’è una crescente esigenza di investimenti “orientati agli obiettivi”, o ai risultati. La gestione patrimoniale e il lavoro dei consulenti possono essere meglio sostenuti dagli asset manager con l’offerta di poche soluzioni di prodotto, facilmente comprensibili. Per esempio: il raggiungimento di un certo flusso di rendimenti nel tempo, il mantenimento di un certo livello massimo di rischio di portafoglio o la distribuzione stabile di reddito nel tempo.

Alla luce di quanto detto, la nostra definizione di successo è diversa da quella convenzionale. La nostra ambizione è quella di fissare obiettivi chiari e misurabili per i nostri fondi e di eseguire un processo di investimento esplicitamente progettato per raggiungere tali obiettivi. Questo ci sembra un modo più trasparente e onesto di interagire con i clienti. È anche un uso migliore delle nostre risorse e competenze rispetto a una proliferazione eccessiva di prodotti differenziati per settore, geografia, tema, stile, fattore, dimensione delle aziende e così via.

La forza di questo approccio è che consente di concentrarsi sugli obiettivi. Ciò comporta anche conseguenze molto importanti per tutto ciò che facciamo. Significa che la nostra proposta e il processo di investimento che la sostiene saranno molto diversi da quelli della maggior parte delle altre società di gestione.

 

La volontà di essere diversi

 

La prima conseguenza di questa impostazione è che implica un differente modo di definire il rischio. Se il successo è raggiungere l’obiettivo che abbiamo dichiarato per ciascuno dei nostri fondi, ovviamente il rischio è la probabilità di (non) raggiungere tale obiettivo. Oggi la concezione del rischio è legata ad una serie di misurazioni quantitative che assumono la misurabilità dello stesso: volatilità, VAR, drawdown, Sharpe ratio e così via. Ma alla fine, “rischio” per noi significa il rischio di non raggiungere l’obiettivo posto per i singoli fondi lungo l’orizzonte temporale richiesto.

 

La seconda conseguenza riguarda il come fare, al fine di raggiungere gli obiettivi di portafoglio. Siamo convinti che si debba essere disposti a costruire portafogli che siano significativamente diversi da quelli detenuti dalla maggior parte degli altri investitori. I risultati saranno raggiungibili solo quando si hanno la libertà, la capacità e il coraggio di includere idee di investimento diverse e non convenzionali, al patto che siano strumentali per raggiungere gli obiettivi.

 

Essere diversi per noi include il cercare le idee di investimento in segmenti di mercato meno frequentati e non solo nelle classi di attivo tradizionali; evitare le scelte più popolari; impegnarsi in scelte in controtendenza; concentrarsi su un numero ridotto di posizioni sul cui potenziale si hanno forti convinzioni. In questo senso anche la distinzione tra asset “tradizionali” e asset alternativi va superata, per costruire portafogli davvero olistici ed integrati. Ciò che invece non fa parte per noi della lista “per essere diversi” è un utilizzo eccessivo della leva finanziaria per massimizzare i rendimenti o il ricorso a strumenti opachi, illiquidi e non valutabili.

 

La terza conseguenza della nostra definizione di successo è ancora una volta personale. Siamo così convinti dei vantaggi di questo approccio che ci sembra razionale e quasi “scontato” investire personalmente nei fondi che gestiamo. Questa è l’unica definizione di “allineamento” che pensiamo sia significativa. Ma che pochissimi gestori professionali mettono davvero in pratica, almeno nel campo dell’industria tradizionale.

 

Per concludere voglio citare un altro gigante della gestione, David Swensen₃ leggendario direttore degli investimenti del fondo dell’universita’ di Yale:. “strategie di gestione attive richiedono comportamenti non istituzionali da parte delle istituzioni, creando un paradosso che pochi possono dipanare”.

 

Il bello di creare una nuova boutique è che possiamo permetterci di essere “non-istituzionali”, come abbiamo visto, nella definizione degli obiettivi e nel modo per raggiungerli. Siamo entusiasti di ciò che abbiamo iniziato. Crediamo che ci sia una proposta di valore genuina per gli investitori in ciò che abbiamo da offrire. Ci auguriamo che condividiate alcune delle cose che abbiamo detto e che questo vi abbia fatto venir voglia di saperne di più e magari accompagnarci nel viaggio. Buon investimento!


 

Giordano Lombardo

CEO e Co-CIO Plenisfer Investments SGR

 

₁ Charles D. Ellis vincitore del gioco del perdente, settima edizione: strategie senza tempo per investire con successo

https://www.oaktreecapital.com/docs/default-source/memos/2006-09-07-dare-to-be-great.pdf?sfvrsn=2

₃ David F. Swensen Pioniere della gestione del portafoglio: un approccio non convenzionale agli investimenti istituzionali

 

 

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